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Ecco il podcast di Voci dalle Dolomiti andato in onda martedì 11 ottobre a Radio Cooperativa: conversazione con lo storico feltrino Matteo Melchiorre, che parla del libro «La via di Schenèr» nel quale presenta in brillante forma narrativa l’esito delle sue minuziose ricerche d’archivio sulle vicende dell’antica mulattiera che per secoli fu l’unica via di comunicazione tra il Primiero e il Bellunese. Una via che passava in quota, dall’ultima frazione di Sovramonte (Bettola) verso nord, attraverso il confine fra l’Impero e la Serenissima. Una infida mulattiera strapiombante sulla gola dello Schenèr all’epoca sommersa dall’acqua (qui solo a fine Ottocento fu aperta la strada di fondovalle nel tracciato attuale). Un viaggio nella storia, con le suggestioni di vari segni del tempo, come i resti del castello di frontiera, e con la possibilità concreta di esplorare questi luoghi facendo un’affascinante passeggiata.
Una stradina, oggi; soltanto uno stretto sentiero in passato: per molti secoli questa era l’unica via di comunicazione tra le due vallate. Un passaggio arduo e pericoloso, d’inverno pressoché impraticabile, lungo il quale si contarono molte vittime, precipitate giù, nell’aspra forra del torrente Cismon: esseri umani e asini, l’unico ausilio di trasporto utilizzabile.
Eppure, nonostante il disagio e il rischio, su quel percorso primierotti e feltrini, notabili e popolani, camminavano avanti e indietro in continuazione, prima e dopo che fosse sciolta la loro unità politica.
La valle ai piedi delle Pale di San Martino, infatti, abitata fin dalla preistoria, nel corso del Medioevo finì sotto il controllo del vecovo conte di Feltre il cui territorio all’epoca raggiunse estensioni tali da comprendere anche il Tesino e la Valsugana (fino a Pergine). Il Primiero, cui nel 1273 Feltre riconobbe una certa autonomia (gli «Statuti») che si articolava mediante le regole di Imèr, Mezzano, Tonadico, Transacqua, in un consiglio di cui era membro anche il capitano del Castel Pietra, cioè un ufficiale vescovile.
Il divorzio fra le due vallate avvenne nel 1349 per opera di Carlo IV di Lussemburgo, 14 anni dopo ci fu il definitivo passaggio nell’orbita austriaca, con gli Asburgo e infine nel 1401, quando al feudatario parmigiano Bonifacio Lupi subentrò la famiglia pusterese Welsperg, dominatrice del Primiero per oltre quattro secoli. Un lungo arco di tempo nel quale la via di comunicazione verso il versante bellunese e poi la pianura veneta era sempre la stretta e infida via dello Schener, che tale doveva rimanere per ragioni «geopolitiche» di confine. Non si poteva agevolare il transito a potenziali armate di conquista e i mercanti che protestavano dovevano farsene una ragione.
Ma anche sotto bandiere diverse, le due aree continuarono a dialogare, tra commerci, matrimoni, mutualismo, litigi e… battaglie. Da un lato, il Primiero a guida tirolese che vede espandersi il suo profilo economico sospinto dalle miniere (gelosamente custodite dall’Impero che vi trasferì migliaia di lavoratori) e dal legname che si vendeva a Venezia dove arrivava attraverso il Cismon e il Brenta.
L’andirivieni ai piedi del castello si intensificava: in equilibrio precario sui sassi, si trasportava un po’ di tutto, dalle botti di vino al mobilio. E l’ufficio del dazio, nella locanda di Bettola, aveva un gran daffare; così come, data la posizione sperduta, la Repubblica di Venezia doveva faticare sempre parecchio per trovare un castellano ben disposto a presidiare lo spettrale maniero di frontiera allo Schener, del quale oggi sono visibili pochi resti.
L’INTERVISTA
Il fascino misterioso del castello dello Schener ha sedotto Matteo Melchiorre, giovane storico bellunese che ha svolto una ricerca sull’antico collegamento tra Feltrino e Primiero, l’unico esistente fino all’Ottocento. «Sono luoghi senza tempo, che custodiscono vicende umane straordinarie, in un’atmosfera da romanzo fantasy, via via sempre più cupa avanzando nella gola. A un certo punto si incontrano, prima, una discesa su gradoni intagliati nella roccia e poi la Scala Storta, nel punto in cui l’antica via cala verso Pontet: impossibile non pensare alla Scala Tortuosa del Signore degli anelli…».
Ma è la narrazione di fatti realmente accaduti.
«Nel corso della mia ricerca, promossa dal Museo storico di Trento e dalla Rete della memoria del Primiero, ho consultato numerose fonti e ne è uscito un diario fitto di racconti, immagini, emozioni. I secoli di questa via dicono innanzitutto di quanto le popolazioni delle due vallate fossero legate, nella realtà concreta della vita quotidiana. Un aspetto, peraltro, che – come noto – si proietta fino ai nostri giorni. I contatti erano tali che a un certo punto si decise di allargare quel sentiero pericoloso, andando così contro le disposizioni delle autorità veneziane e austriache per le quali una via stretta era sinonimo di difesa. La vicenda emerge nei verbali di un processo veneziano tenutosi nel 1634: l’accusa riguardava i lavori abusivi di ampliamento della via che furono affidati da alcuni mercanti all’impresario agordino Lazzaro Zanettin. La sentenza dispose la distruzione dell’intervento, mentre sull’altro lato del confine si evitò la scure del giudice e tuttora resta visibile l’allargamento del sentiero».
Che attraversava la frontiera e le mura del castello veneziano di cui rimangono parecchie tracce…
«Certo, siamo sopra uno sperone, davanti a un precipizio sull’alveo del torrente Cismon e proprio di fronte, sul versante opposto della valle, di una torre di guardia tirolese. In questo punto della via il viandante doveva passare per forza, a meno di non fare i più rischiosi e scoscesi percorsi dei contrabbandieri, evocati in molte carte ufficiali come una delle piaghe da debellare. La costruzione del maniero è indicata in un documento certo d’archivio nel 1493; altre fonti, nella storiografia municipale, anticipano la data alla fine del ?300 attribuendone la realizzazione non al doge ma a Francesco da Carrara, all’epoca signore di Feltre e Belluno.
Un’incisione ottocentesca illustra un castello – che per i funzionari della Serenissima era una sede di lavoro scomodissima e senz’altro da evitare -composto da due elementi: un bastione in basso, sul precipizio; la torre e le altre strutture. Oggi c’è la speranza che tutta questa storia venga valorizzata».
COME ARRIVARE
L’antica via del Castello dello Schener si raggiunge salendo alla frazione di Zorzoi di Sovramonte, nel Parco nazionale delle Dolomiti bellunesi. Dalle ultime case della località Bettola si imbocca una mulattiera che prosegue verso la gola dello Schener: il nome evoca il trasporto sulla schiena (di uomini e asini) di merci e legname che avveniva su questo sentiero e nei dintorni.
In una ventina di minuti si raggiunge lo sperone sul quale sono visibili i pochi resti del maniero veneziano, che segnava il confine con l’area che dall’inizio del 1400 era sotto il controllo tirolese. In realtà, questa zona, morfologicamente aspra, di fatto era una specie di terra di nessuno, dove spesso i conti si regolavano alle spicce, come spiega lo storico feltrino Matteo Melchiorre.
Oltre le vestigia del castello, anche oggi il percorso diventa sempre più esposto e circa un chilometro più avanti è franato. È in questo tratto che si trovano anche i segni di un antico tempietto votivo, probabilmente nel punto più pericoloso di un sentiero che nei secoli ha fatto molte vittime. Nelle sue ricerche, svolte su incarico del Museo storico del Trentino e della Rete della memoria del Primiero, Melchiorre ha trovato menzione anche di una fornace di calce usata dalla gente di Zorzoi: un sopralluogo ha consentito di confermare l’inedita scoperta.
La via dello Schener è ricordata spesso dal primierotto Angelo Michele Negrelli (1764-1851), padre del noto ingegnere Luigi, nelle sue «Memorie» (ripubblicate nel 2010 da Agorà editrice di Feltre, a cura di Ugo Pistoia, prologo di Gigi Corazzol, pp. XCIII-915, 35 euro). Anche il noto alpinista e viaggiatore britannico John Ball menziona nei suoi diari la pericolosità di quel sentiero.
Lo storico Matteo Melchiorre ha al suo attivo anche i libri «Requiem per un albero. Resoconto dal Nord Est» (Spartaco, 2004) e «La banda della superstrada Fenadora-Anzù (con vaneggiamenti sovversivi)» (Laterza, 2011).