La legislatura appena avviatasi faticosamente, in uno scenario politico a tratti grottesco, potrebbe forse riaprire il capitolo delle autonomie, compresa quella richiesta da vari decenni dall’area alpina di Belluno (e ribadita nel referendum provinciale dell’ottobre scorso).
La legislatura precedente, quella segnata dal regno di Renzi, ha letteralmente massacrato le Province ordinarie (colpite e desertificate da una “riforma” insensata) e con esse l’architettura democratica (peraltro formalmente rimasta intatta, perché il suggello costituzionale è stato bocciato dagli elettori il 4 dicembre 2016).
Di fronte a questo scenario, caratterizzato da un’involuzione neocentralista ai danni dell’autonomia dei territori, è evidente la necessità che il legislatore imprima un deciso cambio di rotta, per rispondere alla esigenza di molte realtà locali di poter costruire al meglio scelte politiche, legislative e funzionali (si pensi alle zone di montagna, morfologicamente assai difficili e martoriate dal governo malgrado siano attraversate da una miriade di criticità drammatiche assenti nelle aree metropolitane o di pianura, dallo spopolamento alle difficoltà a garantire servizi e infrastrutture).
Con Renzi (e chi lo ha preceduto e seguito: Letta e Gentiloni) si sono salvate solo le Regioni e Province a Statuto speciale, che hanno visto addirittura rafforzarsi le loro prerogative autonomistiche, in cambio di un sostegno (cinico e miope) al disegno legislativo renziano contro l’autogoverno altrui.
Ora ci si aspetterebbe un cambio di marcia, se non altro perché la riforma delle Province ordinarie ha provocato una serie di squilibri e di vuoti organizzativi che si traducono in servizi ridotti o negati ai cittadini. Davvero un grande risultato.
Certo, vien fatto di dubitare sulla volontà di agire correttamente, nel solco del federalismo e contro i centralismi nazionali e regionali, da parte dell’attuale governo, che a quanto pare è troppo affaccendato con gli attacchi ai migranti in mare e alle Ong che li aiutano, nella propaganda in stile Far West sulla legittima difesa o in altri specchietti per allodole da piazzare senza troppa fatica nel mercato del consenso elettorale.
Non si ricorda, infatti, che dalla maggioranza di governo (ma nemmeno dall’opposizione) siano arrivate prese di posizione sulla urgenza di ricostruire la linfa democratica dalle “periferie dell’Impero”, cioè sul trasferimento di competenze ai territori omogenei che sono in grado di mettere in moto meccanismi virtuosi con riverberi positivi anche sul tessuto economico.
Nel caso di Belluno, peraltro, molte competenze importanti sono già da trasferire a norma di legge regionale, ma qui è Venezia a non dar corso a quanto previsto in materia di autonomia della provincia dolomitica.
Se in passato la scusa era la mancanza di fondi a causa dei tagli romani, ora che al governo nazionale siedono gli amici del governatore leghista Luca Zaia, tutto dovrebbe procedere alla velocità della luce.
In realtà non ci facciamo illusioni. L’attuale governo è composto da una forza, il movimento Cinque stelle, che le Province diceva di volerle non riformare ma abolire (evidentemente a loro piace il centralismo regionale), e da un partner di minoranza (ma che a quanto pare comanda di più…), la Lega di Salvini, ormai in salsa sovranista e nazionalista (al momento non è chiaro se a loro piace ancora il centralismo macroregionale).
Intanto Belluno attende risposte sullo status istituzionale differenziato, tanto urgente per salvare un territorio alpino che presenta una serie di indicatori socioeconomici allarmanti (e impietosi al confronto con le vicine autonome Trento e Bolzano).
Si tira avanti dunque navigando a vista, magari entusiasmandosi per l'”elemosina” dei fondi di confine – i finanziamenti che fra vari stop and go arrivano ai Comuni delle aree “di frontiera” in Veneto e Lombardia grazie alla legge dello Stato che sulla base di un’intesa fra Roma, le Regioni e le due Province autonome, dispone il versamento annuale di 80 milioni (40 a testa) da parte di Trento e Bolzano, previa intesa operativa con le medesime (rinnovata nel 2017).
Ora fra l’altro la gestione del fondo si avvia verso una nuova stagione, dopo quella che ha visto alla presidenza il deputato bellunese Roger De Menech (Pd), calatosi con entusiasmo nella logica della elargizione una tantum più che in quella della soluzione strutturale del drammatico malessere di un territorio sostanzialmente negletto dalla politica nazionale e regionale. Negletto nella sua istanza di “liberazione” ma nel mirino per le sue ricchezze naturali, a cominciare dall’acqua.
Sulla prospettiva politica bellunese riceviamo e volentieri pubblichiamo questa nota del movimento Bard, Belluno autonoma Regione Dolomiti.
“Il cambio al vertice nella gestione dei Fondi dei Comuni di Confine viene salutato dal movimento Belluno Autonoma Regione Dolomiti con una speranza: «Non sia più una strumento politico-partitico, ma finanzi i progetti veramente strategici».
«Il Fondo deve tornare nelle mani dei comuni confinanti e delle Province, per lavorare su progetti di sviluppo delle aree periferiche. – commentano dal movimento – Non è più accettabile che queste risorse vengano impiegate per sopperire alle mancanze della Regione e dello Stato, come invece purtroppo è stato fatto in questi anni e come alcuni sindaci vorrebbero continuare a fare».
Troppi gli esempi sbagliati del passato: «Finanziare l’ospedale di Agordo è un progetto strategico? Certamente. Va fatto con i fondi di confine? Assolutamente no! È compito della Regione Veneto, che deve però sopperire ai tagli avuti negli anni di governo PD dallo Stato».
Quale dunque il possibile sviluppo? «Innanzitutto, affidare la responsabilità del fondo ad un tecnico, e non ad un rappresentante politico. Alla gestione De Menech possiamo dare il solo merito di aver sbloccato il movimento dei fondi, e speriamo che per il futuro venga mantenuta questa tempistica, se non migliorata.
Poi, il passo successivo deve essere una trattativa Regione-Governo sul tema dei trasferimenti agli enti locali: vanno ripristinati i fondi a comuni, province e regioni almeno ai livelli del 2008, così che ogni ente sia in grado di garantire i servizi necessari al suo territorio in modo da “liberare” gli 80 milioni di euro del FCC per progetti di sviluppo. Infine, l’autonomia, bellunese e veneta: si prospetta il voto alle Camere su questo tema nel 2019, quindi è tempo di lavorare per il trasferimento delle competenze e delle risorse prima a Venezia e da lì a Roma, oltre che per il ripristino dell’elettività dell’ente Provincia. Se non si rispetteranno questi passi, il Fondo dei Comuni di Confine sarà solo una soluzione per Roma per continuare ad ignorare la “questione montagna”, sottraendo risorse alla Province autonome di Trento e Bolzano. Finché queste staranno al gioco…»”.